a proposito della lingua italiana

Una volta, all'università, vissi una crisi di disperazione. Avevo assegnato una tesi di laurea, la studentessa in questione partiva con una buona media, si era anche appassionata al tema della ricerca. Solo che non sapeva come scriverla, non riusciva a organizzare il testo, né a tradurre i propri pensieri in italiano, la lingua che ci hanno consegnato i nostri avi. Sicché, dopo averle fatto riscrivere il primo capitolo, una volta, due, tre, le imposi questa soluzione: avrebbe dovuto ricopiare su un quaderno una qualsiasi delle Città invisibili raccontate da Calvino, e ricopiare altresì i primi 12 articoli della Costituzione, quelli che dettano i Principi fondamentali. Lei mi guardò in tralice, pensando di subire un'angheria, un atto di sadismo. Però la settimana dopo era contenta. Aveva scelto Eudossia, la città che riproduce i disegni d'un tappeto; e le era rimasto impresso soprattutto l'articolo 3 della Costituzione, che declina il principio d'eguaglianza. "Non pensavo", disse, "che si potesse mai scrivere qualcosa in modo così sonoro, così musicale".

Ripenso a quell'episodio mentre apprendo i risultati dell'ultimo concorso in magistratura: 3797 candidati, 310 posti, 220 appena (il 5,7% di tutti i concorrenti) ammessi all'orale. Strafalcioni di diritto, ma pure d'italiano. Difatti nelle prove scritte la commissione ha ravvisato una grande povertà linguistica, insieme a errori di concetto e di grammatica, all'ignoranza della punteggiatura, all'incapacità d'usare i capoversi. D'altronde Save the Children ci aveva già avvertito: un quindicenne su due sa leggere ma non sa capire ciò che legge, né orientarsi fra notizie attendibili e fake news.

Ne è scaturito un dibattito allarmato, anche per i pericoli cui va incontro la democrazia italiana, se gli illetterati diventano il grosso del suo corpo elettorale. Come porvi rimedio? Scartata la possibilità di tornare all'Ottocento, quando gli analfabeti non potevano votare (e occorreva un censo di almeno 40 lire), si è invocata a gran voce una riforma della scuola. L'ennesima riforma, come se la Buona Scuola di Renzi non fosse già abbastanza. E come se bastasse un tratto di penna del legislatore per guarire qualunque malattia sociale. Altri hanno puntato l'indice contro la scarsa qualità degli insegnanti. Privi d'una formazione sufficiente, si è osservato. Anche per colpa dei quiz a risposta multipla con cui sono reclutati, ha accusato Luciano Canfora. O a causa d'errori pedagogici che hanno sostituito allo studio dei manuali gli appuntini dettati dalla cattedra. E allora tanto vale abolire la scuola media, dalla quale due ragazzi su cinque escono con competenze da quinta elementare, ha concluso Antonio Polito. La riforma più ambiziosa, tuttavia, è sempre rimasta un desiderio. Eppure l'Accademia della Crusca la reclama fin dal 1988: offrire una tutela costituzionale all'italiano. Attraverso una disposizione iscritta nella Carta, che riconosca l'italiano come lingua ufficiale della Repubblica. Seguendo l'esempio della Francia nel 1992, del Portogallo nel 2001, nonché di vari altri Paesi, dall'Austria alla Finlandia, dalla Romania alla Spagna. Sarebbe davvero dirimente? Sì e no. Intanto, 13 Stati dell'Unione europea (su 27) tacciono sulla lingua nelle loro Costituzioni nazionali, senza che questo silenzio impedisca d'intraprendere politiche linguistiche sovente assai efficaci. In secondo luogo, in Italia esiste già una legge (n. 482 del 1999) dove l'italiano viene solennemente dichiarato "lingua ufficiale della Repubblica". In terzo luogo, e soprattutto, c'è il rischio di confezionare una riforma di carta, corrodendo l'autorità e il prestigio della Costituzione. Come accadde nel 1999, quando la "ragionevole durata" del processo venne inserita fra i principi costituzionali; e l'anno dopo i processi penali diventarono più lunghi, anziché diminuire.

No, non è una nuova norma che ci potrà salvare. Serve piuttosto un'inversione di tendenza nella prassi, nei metodi d'educazione e d'istruzione. E serve consapevolezza del tempo in cui viviamo, del salto culturale che stiamo attraversando. È la società dell'immagine, quella che si profila all'orizzonte. I nostri figli adolescenti condividono video su TikTok, si scambiano messaggi vocali su WhatsApp, sono immersi in un universo digitale dove la parola scritta è recessiva rispetto alla fotografia o al filmato. E ovviamente non leggono libri né giornali. Ciò nonostante, hanno bisogno d'imparare a scrivere, e non soltanto per vincere un concorso in magistratura. Per ciascuno di noi la pagina bianca, il foglio che devi riempire di parole, rappresenta uno stimolo, e al contempo una sfida. Perché ti costringe a riordinare la babilonia d'idee che ti frullano in capo, a organizzarle attorno a un tema unificante, a disporle in successione logica. Il pensiero prende forma solo quando si dispone per iscritto.

Da qui la conclusione: se il nostro tempo ha messo in crisi il primato della parola scritta sull'immagine, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per rinvigorirla, per mantenerne l'uso. E dunque - sia nella scuola che all'università - meno esercizi di ripetizione passiva del libro di testo, più occasioni di scrittura, di composizione di un tema o d'un elaborato. E siccome, per saper scrivere, bisogna prima saper leggere, non sarebbe male sottoporre gli studenti, di tanto in tanto, al compito che avevo assegnato alla mia vecchia tesista: ricopiare un brano scritto nella nostra lingua migliore. Potrebbero iniziare da una norma che li riguarda da vicino, custodita nell'articolo 34 della Costituzione: "I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi". È una norma così bella, così maltrattata nella pratica. Proprio come l'italiano.

Michele Ainis

pubblicato su "Repubblica" il 31 maggio 2022

 

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